Dalla rivista culturale "Il porticciolo" - Marzo 2010

Determinato ed indeterminato nella poesia di Giovanni Pascoli

È in un tempo dell'infanzia, nel suo personale tempo dell'infanzia, come sempre per lui, che va cercata la radice prima della poesia di Giovanni Pascoli.

Nella prefazione ai Canti di Castelvecchio, l'autore ricorda l'abitudine contemplativa a cui fu educato nei primi anni dalla madre.

Pascoli è stato definito poeta delle cose piccole ed egli aveva intitolato una delle sue prime raccolte proprio Mirycae, ma sotto le piccole cose vi sono sensi profondi e grandi, una passione struggente per la vita, ben lontana dalle visioni enfatiche e squillanti.

Non a caso, i più sensibili critici hanno ravvisato nella sua poesia una certa consonanza con l'allora emergente tendenza artistica, prevalentemente francese, di un "impressionismo poetico".

Si trattava, però, di un impressionismo assai personale: le liriche di Pascoli, dalla struttura semplice, tuttavia mai semplicistica, segnano la nota caratteristica del poeta, consistente da un lato in un pessimismo cosmico e totale, dall'altro in un'affettuosità struggente per tutto ciò che è vittima del dolore del mondo.

Il pessimismo di Pascoli risulta certo meno esplicito di quello del Leopardi, è quieto e terribile al tempo stesso, perché non trova consolazione neppure nell'arte come sublimazione del contingente.

Cosmo ed umanità, questi i due termini essenziali di gran parte della meditazione e della poetica pascoliane: il problema dell'insufficiente spazio terrestre e quello dell'immenso spazio celeste; il problema del breve tempo umano e quello dell'infinito tempo astrale; il problema dell'immediato oggi e quello dell'eterno destino umano.

L'uomo di Pascoli è l'uomo visto in rapporto alla Terra ed al Cosmo, senza più pace nel mondo terrestre e senza confidenza con il cielo, come emerge dalla poesia Il bolide, dove, nella cornice della risorgente memoria di un lontano timore per la propria morte, legato al ricordo dell'uccisione del padre, il poeta rievoca la visione della notte attraversata all'improvviso dal corpo incandescente che precipita dal cielo sulla Terra.

Il paesaggio suscitato dalla caduta del bolide è un paesaggio pittoresco, sia pure posto al limite dell'esperienza dell'occhio umano per l'eccezionalità di quella luce favolosa in cui si rivela.

È solo negli ultimi versi, con la reazione del poeta, che si determina una fortissima suggestione astrale ed il cielo s'incurva sulla Terra come volta stellata: "ma non v'era che il cielo alto e sereno"; poi si definisce come spazio contenente vasti mondi:"il cielo cupo, pieno / di grandi stelle"; infine si spalanca intorno e sotto la Terra: "il cielo, in cui sommerso / mi parve quanto mi parea terreno / e la terra sentii nell'Universo".

Però Pascoli non si arrende sentimentalmente al suo pessimismo e la consapevolezza di una salvezza impossibile lo porta a piegarsi su accordi di nostalgia di cose domestiche e passate o addirittura solo sognate.

Il mondo pascoliano è dunque quello delle cose umili, che stanno non sopra, ma sotto la linea dell'attenzione tradizionale e Pascoli è un poeta che si ama tanto più quanto maggiormente avanza l'età di chi legge le sue poesie. Nella sua attenta osservazione della natura e degli uomini, vi sono cenni significanti che si nascondono nella semplicità del suo sussurrare. Un anelito di fratellanza spira dai suoi versi, che ci toccano, diretti e scarni, come in un intimo colloquio di anime.

Alcune figure della poesia del Pascoli rimangono nella memoria in modo indelebile, perché giungono al cuore prima ancora che alla mente. Chi può dimenticare il piccolo Valentino, o la neve che fiocca mentre la zana dondola ed il bimbo si addormenta, o le ciaramelle della vigilia di Natale come suoni fluttuanti in un mondo incantato, o l'aquilone che si alza nel vento, o, infine, quella cavalla storna che fu testimone dell'assassinio del padre? Grande diventa dunque la poesia di Pascoli di fronte a noi, che siamo condannati a vivere in "quest'atomo opaco del male", perché, come faremmo a proseguire nella nostra vita se non ci fossero le piccole e buone cose che racchiudono scintille di felicità rubata al destino?

Tuttavia, la determinatezza del poeta negli oggetti e nelle figure quotidiane e familiari che egli rende visibili al cuore con l'abilità di un artista si accampa sempre sopra un fondo d'indeterminatezza, come nella poesia Nebbia, in cui dalla bruma o dal fumo emergono dei "primi piani"; una siepe, due peschi, due meli, un cipresso. Ma questi "primi piani" non si giustificano se non in rapporto ad un orizzonte indeterminato; dunque, questi oggetti determinatissimi si situano sopra uno sfondo effuso e sfumato.

Su di esso, viene identificata anche la morte nella lirica Andrée: "sola", "pura", "infinita ", e Pascoli la definisce attraverso il canto dei cigni, che è "Un lento / interrotto d'ignote arpe tintinnio; /un rintocco lontano, ermo tra il vento / di campane, un serrarsi arduo di porte / grandi, con chiaro clangore d'argento".

Il tema del cigno è anche nel Transito, dove pure si ascolta il suo canto e lo si rappresenta bianco di contro all'infinita tenebra polare, mentre agita le grandi ali e si allontana nella luce dell'aurora boreale.

Anche in questa lirica, il senso del mistero e della morte è legato alla solitudine polare, il suono del canto del cigno è metallico ed esso viene paragonato ad un suono di campane.

In Andrée ed in Transito, il regno indeterminato della morte o del "non-essere" è ghiaccio, aridità, desolazione, solitudine, luce irreale e suono di un canto; nel Transito la conclusione è un allontanarsi in una luce così irreale da divenire un'assenza, in Andrée si allude prima ad un chiudersi per sempre di "ardue" porte e poi all'astro che arde sul Polo come una lampada tombale.

Nelle due liriche, la purezza incontaminata corrisponde all'anelito umano verso l'Assoluto, verso l'Infinito negato. Tuttavia, il cigno del Transito diviene il simbolo dell'immortalità poetica e l'eroismo solitario di Andrée si fa espressione di una pienezza dell'essere che, negata dalla vita, si riconosce soltanto nel confronto col nulla, diventato in qualche modo il regno del sogno umano d'eternità.

La poesia, che ha in sé l'eco di questa indeterminatezza e di questo ignoto, è esperienza totale di libertà e di protesta contro le costrizioni del vivere; diventa intuizione di un Assoluto, che coincide con ciò che i Romantici chiamavano l' infinito , con un sogno di autenticità della vita.

La poesia è dunque la superstite ricerca di un'utopia che riscatti lo squallore della vita stessa, come la sostanza dell'immaginazione del Pascoli non si trova nelle singole immagini, ma negli intervalli tra un'immagine e l'altra.

L'apparente chiarezza della poesia pascoliana è eminentemente evocativa e suggestiva, perché la vera infanzia ritrovata è proprio la poesia, questa adesione totale alla vita delle cose ed alla loro allusiva, misteriosa bellezza: "Mi sembrano canti di culla/ che fanno ch'io torni com'era ... / sentivo mia madre ... poi nulla ... / sul far della sera".

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